Oggi più che mai la comunicazione commerciale punta sull’emotività, sul mettere in luce la storia che c’è oltre al prodotto in sè. È quello che dagli addetti ai lavori viene chiamato storytelling.
Ed è proprio questo ciò di cui vorrei parlare, per invitare ad una riflessione consapevole su ciò che sta dietro al capo finito che troviamo sulle mensole dei negozi.
The True Cost
È un racconto che è stato redatto in un documentario molto discusso, e che purtroppo non è facilmente visionabile: ‘The true cost‘, ovvero il costo reale.
Una storia che insegna a considerare ogni capo di moda come il risultato della fatica di tanti lavoratori persi in paesi lontani. Storie di mani che con le loro competenze contribuiscono a creare ciò che noi quotidianamente indossiamo.
Un discorso che può sembrare scontato, ma che in realtà mette in luce un lato oscuro del sistema moda, sempre raccontato come scintillante e affascinante.
Ciò che emerge da questo documentario è la necessità di conoscere di più la filiera produttiva che porta a vendere una t-shirt a 5-10€. La corsa al prezzo più basso è andata a discapito della qualità di vita degli operai.
Si è andati verso un sistema in cui non si dà più valore al singolo prodotto. Se ne consuma una quantità sempre maggiore ad un prezzo irrisorio e dunque non ci si sente in colpa a liberarsene in fretta.
Ma tutto questo ha un impatto che non può essere ignorato. Il potere di trattativa dei marchi della moda cresce continuamente e punta ad ottenere sempre maggiore profitto. E come farlo se non attraverso un costo della manodopera sempre più tendente allo zero? Questa corsa al ribasso non accenna ad arrestarsi.
‘The true cost‘ colpisce nel segno perché parla proprio delle storie di queste operaie tessili, mettendo davanti agli occhi di chi guarda il documentario una ingiustizia sociale difficile da sopportare.
La maggior parte di queste storie parla di mamme, mamme esattamente come me e te, che sognano per il proprio bimbo tutto il meglio e sono disposte a sacrifici per creargli un futuro migliore.
La storia di Sahia
Così possiamo incontrare Sahia, giovane donna del Bangladesh dai grandi occhi scuri e un sorriso davvero malinconico. Ci racconta con dolore e rassegnazione disarmante della sua quotidianità in fabbrica: lontana dalla figlia di 5 anni che sta crescendo con alcuni parenti fuori città. Questo perché i luoghi in cui si sono sviluppate le fabbriche hanno un livello di inquinamento dell’aria e dell’acqua inaccettabile. L’unica scelta possibile è quindi quella di far crescere da altri i propri figli per non correre il rischio di farli ammalare. La qualità di vita in quei contesti è veramente a livelli inaccettabili, e questo fa comprendere come le lavoratrici non abbiamo possibilità di scelta.
Pensiamo a quanto sarebbe inconcepibile per noi mamme doversi separare dal nostro bambino perché il luogo in cui dobbiamo vivere per mantenerci non offre le condizioni minime accettabili per far crescere un bambino.
E non esistono alternative perché ogni fabbrica ha abbassato i suoi standard per poter sopravvivere a sua volta all’abbassamento dei prezzi da parte dei grandi clienti della moda.
Vedere negli occhi di Sahia il suo dolore di mamma non può lasciare indifferenti noi mamme…
Non si tratta di situazioni create da catastrofi naturali o da mancanza di risorse, ma la causa siamo noi consumatori della moda, noi che creiamo la domanda. Noi che siamo sempre alla ricerca del prezzo più basso per poter comprare di più e variare più spesso l’armadio.
Il seme del cambiamento
Io per prima ero così. Avevo l’obiettivo prioritario del risparmio a tutti i costi, e non mi aveva mai sfiorato l’idea di dover riflettere su come era arrivato in mano a me un capo a 5€.
Il mio cambiamento è arrivato con la scoperta di essere incinta e la voglia di prendermi cura nel migliore dei modi del piccolo che cresceva in me.
È stato così che ho iniziato a sentire il bisogno di fare scelte consapevoli e oculate, di studiare le etichette. E soprattutto di chiedermi e capire dove fosse stato prodotto quel capo.
La mia piccola rivoluzione è partita da un bisogno individuale di ricerca di benessere per il mio futuro bimbo, e si è scontrata con la stessa identica necessità espressa da Sahia in Bangladesh.
La motivazione di base era la stessa, ma le mie possibilità di scelta sono infinitamente maggiori rispetto a quelle delle donne dei paesi sfruttati dal sistema moda. Loro scelgono il sacrificio della loro qualità di vita per dare ai propri figli la possibilità di studiare. Studiare per trovare un posto di lavoro con condizioni più umane di quello nelle fabbriche.
I miei pensieri riguardavano la scelta di quali prodotti tra le migliaia in commercio potessero essere i migliori.
La sua riguardava la possibilità o meno di dare istruzione alla sua bimba, di farla crescere in salute, e di poterle dare una famiglia unita.
La storia di Sahia mi ha toccata da vicino proprio perché ho vissuto questo parallelismo tra le nostre vite, accumunate unicamente dall’essere mamme.
Il prezzo inaccettabile del fast fashion
Non credo si possa accettare che per risparmiare 10-15€ su una t-shirt i marchi della moda costringano i proprietari delle fabbriche a risparmiare sulle norme di sicurezza. Per non parlare dell’utilizzo di prodotti più economici anche se tossici, pericolosi e inquinanti e a sottopagare i loro lavoratori.
Ovviamente la qualità è il primo elemento ad essere stato tagliato fuori da questo sistema malato; entrano però in gioco anche fattori di rischio per la salute dei lavoratori ed anche della nostra! La nostra pelle infatti rischia di entrare in contatto con sostanze tossiche e allergeni potenzialmente presenti sui capi low cost.
Dopo aver visto questo documentario ho iniziato a riflettere su ogni acquisto e a fare scelte consapevoli.
Occorre considerare che anche la mia singola scelta influenza la qualità di vita di una mamma e del suo bimbo, seppure dall’altra parte del mondo.
Che rapporto avete voi con la moda? Da neomamma è sicuramente facilissimo farsi prendere la mano e comprare tantissimi capi sfiziosi. In effetti è facile sentirsi appagate dal vedere il nostro bebè con look sempre diversi! O semplicemente pensare: tanto lo metterà per pochissimo tempo, perchè investire una cifra maggiore?
Riuscite a trovare un equilibrio tra la voglia di comprare e la reale utilità e qualità dei capi?
Avete mai riflettuto su chi ha realizzato i vestitini che comprate, e in quali condizioni sono stati cuciti?
Esiste un bellissimo progetto su questo tema , dal nome ‘who made my clothes’ promosso dall’organizzazione inglese ‘Fashion Revolution‘, che mette l’accento proprio sulla filiera produttiva del sistema moda.
Iniziare a porsi domande è il primo grande passo che possiamo compiere nel nostro quotidiano!
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